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La parabola del fariseo e del pubblicano

di p. Victor Potapov

Continuando nella sua critica alla religiosità farisaica, Cristo racconta un’altra parabola, quella del pubblicano e del fariseo, nel capitolo 18 del Vangelo secondo Luca.

«Due uomini salirono al tempio a fare orazione: uno fariseo, e l’altro pubblicano. Il fariseo stava in piedi, e dentro di sé cosi pregava: Dio, io ti ringrazio, poiché non sono come gli altri uomini: rapaci, ingiusti, adulteri; e neanche come questo pubblicano: Digiuno due volte la settimana, e pago la decima di tutto quel che posseggo.
Ma il pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore.
Vi dico, che questi se ne tornò giustificato a casa sua, a differenza dell’altro: poiché chiunque si esalta, sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato.» (Luca 18, 10-14)

La frase «Due uomini salirono al tempio per pregare» dà inizio alla parabola del Signore. Il Signore Gesù descrive entrambi gli uomini nella preghiera, in quanto «La preghiera è uno specchio della propria disposizione spirituale», secondo i santi Padri della Chiesa. «Guarda in questo specchio, guarda come preghi, e sarai in grado di dire senza errore quale sia la tua indole spirituale». Le nostre preghiere mostrano i nostri lati buoni e oscuri, il nostro abbassamento spirituale e la nostra resistenza spirituale. Non è un caso che il libro di servizio del Triodion quaresimale si apra con la stichira: «Fratelli, non preghiamo come il fariseo».
La parabola presenta il fariseo come un uomo totalmente soddisfatto di sé. Il fariseo adempie la legge, e così viene e prega in rendimento di grazie: «Dio, ti ringrazio, che non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neanche come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana, do le decime di tutto ciò che possiedo ed eccomi qui a ringraziarti.»
In effetti, il fariseo ha dei veri motivi di soddisfazione come membro dell’élite intellettuale, a suo modo religiosa, istruita e colta. Conserva le credenze e le tradizioni, adempie alle prescrizioni religiose e dà un decimo della sua ricchezza alle autorità ebraiche. Evidentemente non è un uomo cattivo; al contrario, è considerato con grande rispetto. Ma la sua soddisfazione personale domina così tanto la sua mente da impedirgli di guardare nel suo cuore, che ha dimenticato tutti i valori che contano al tempo dell’Ultimo Giudizio di Dio.
L’altro uomo, il pubblicano, è un esattore di imposte, professione a quei tempi disprezzata. Il pubblicano sembra non adempiere a nessuna parte della legge. Percependo così la sua indegnità, si batte il petto e prega: «Dio abbi pietà di me peccatore!» Il pubblicano concentra la sua preghiera sul suo essere peccatore davanti a Dio. Comprende la futilità di qualsiasi giustificazione mediante opere esteriori. Quindi i due uomini, quello dell’autocompiacimento e quello del pentimento, sono veramente uno l’opposto dell’altro.
Da un lato, vediamo l’egoista: «Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini». Secondo San Giovanni Climaco, questa «sfacciata sfilata delle nostre fatiche» è ridondante, perché il Signore conosce già il cuore del fariseo. Ma il fariseo prosegue: «Io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri e anche degradanti il loro prossimo – non sono… come questo pubblicano». Sebbene il fariseo creda nel Signore e Lo ami e cerchi il suo aiuto, quando umilia il suo prossimo ed esalta sé stesso, in tal modo rifiuta Dio.
Il fariseo non ha nemmeno bisogno di Dio. San Giovanni Climaco scrive che la passione dell’orgoglio «trova da mangiare nella gratitudine». Per ora, il fariseo sta pregando, ma tra poco smetterà di pregare, perché la preghiera è tendere verso Dio per ricevere il suo aiuto. «Ho visto persone», dice sempre San Giovanni Climaco, «che ringraziano Dio con la bocca, ma si magnificano mentalmente. E questo è confermato da quel fariseo che disse ironicamente: “O Dio, ti ringrazio”.»
Il peggior errore del fariseo soddisfatto di sé è condannare gli altri. L’amore si è inaridito in lui, e la condanna e il disprezzo degli altri hanno preso il posto dell’amore. E così il fariseo dimentica quale sia l’incommensurabilità della misericordia e calcola la sua quantità virtuosa: «Digiuno due volte alla settimana, do le decime».

Dio non ha bisogno di calcoli. Vuole i cuori degli uomini. Quantificare le buone opere può portare solo al fariseismo formalistico. Il Signore dice: «A meno che la vostra giustizia non superi la giustizia degli scribi e dei farisei, voi non entrerete in nessun caso nel regno dei cieli» (Matteo 5:20). Nota le parole del Salvatore «a meno che la tua giustizia non superi». Con queste parole il Signore valuta la vita spirituale dei farisei.
Il pentimento è totalmente diverso dalla soddisfazione. Abba Antonio una volta disse ad Abba Poemen: «Il lavoro di un uomo consiste nel deporre i propri peccati sulla propria testa davanti a Dio». Pertanto, il pubblicano prega anche: «Dio, abbi pietà di me peccatore». Ha bisogno di Dio e implora, comprendendo di non essere niente, e che tutto ciò che può fare è gettare «i suoi peccati sulla sua propria testa davanti a Dio».
«L’orgoglio è l’annientamento della virtù», dice Giovanni Climaco. I vecchi libri e le vecchie stampe popolari mostrano così il fariseo e il pubblicano: il fariseo corre su un carro mentre il pubblicano cammina a piedi, entrambi si sforzano di entrare nel Regno dei Cieli. All’ultimo momento il carro del fariseo si rompe, in modo che il pubblicano a piedi possa raggiungerlo. Nella lotta della vita reale, bisogna imparare a bilanciare la religiosità interiore ed esteriore. Bisogna osservare i comandamenti di Dio e le regole della Chiesa. Ma farlo non è altro, secondo Giovanni Climaco, che pensare di nuotare fuori dal profondo con una mano sola. Bisogna condividere anche l’umiltà del pubblicano. Il pubblicano, tuttavia, uscì dal tempio meglio giustificato davanti a Dio di prima, ma non è ancora – in quanto continua a fare l’esattore delle imposte – nel Regno dei Cieli. Nella preghiera di Sant’Efrem il Siro, il Dottore del Pentimento, la preghiera « Signore e Sovrano della mia vita», chiediamo di vedere i nostri peccati e di non giudicare il nostro fratello.
La preghiera e le buone opere sono vane se sono fatte non per Dio ma per vanagloria. Secondo tutti i Padri, la vanagloria è la «fiducia nei propri sforzi», il «rifiuto di Dio», l’«allontanamento del Suo aiuto». Fare qualcosa solo per mettersi in mostra non è rendere a Dio ciò che Gli è dovuto, non è restituirgli il talento d’oro moltiplicato – «Questo è cosa tua». Il diavolo incontrò un certo Santo Padre e gli disse: «Io sono come te in tutte le cose, tranne una: tu non dormi e io veglio; tu digiuni, e io non mangio nulla; ma tu mi vinci con l’umiltà». I fedeli seguaci di Cristo non sono conosciuti per le opere, ma per l’umiltà. Posso nutrire qualcuno in nome di Dio, senza attribuire nulla a me stesso – e in questo caso avrò compiuto un’opera veramente cristiana. Tuttavia, se dovessi fare la stessa cosa, ma per qualsiasi altra ragione, per qualsiasi altro scopo – qualunque esso sia – quest’opera non sarà di Cristo.
La parabola del pubblicano e del fariseo è la chiamata di Cristo a sradicare il fariseismo in ognuno di noi. La Chiesa si affretta in nostro aiuto la prima domenica prima della Grande Quaresima, quando i suoi servizi divini recitano: «Vieni, impara sia dal fariseo che dal pubblicano. Dal primo impara le sue opere, ma non il suo orgoglio; perché le opere di per sé non significano nulla e non salvano. Ma ricorda che anche il pubblicano non è ancora salvato, ma è solo più giustificato davanti a Dio rispetto al fariseo, che era adorno di virtù».
Ricordiamo le parole di Cristo: «chiunque si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato» (Luca 18, 14).


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