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«Oggi che la Parola è morta»

Omelia per il Santo e Grande Venerdì del Metropolita Filarete di Mosca

Cosa vorreste, fratelli, da noi ministri della parola, oggi che la Parola stessa morta?
Il Verbo coeterno al Padre e allo Spirito, nato per la nostra salvezza, l’Autore di ogni parola viva ed efficace (Ebrei 4,12), è silenzioso, morto, sepolto e sigillato. Più chiaramente e in modo convincente «per mostrare all’uomo il sentiero della vita» (Sal. 16, 11) questa stessa Parola discese dal cielo e si rivestì di carne; ma gli uomini non vollero dare ascolto alla Parola, strapparono la Sua carne, ed ecco, «Egli è tolto dalla terra dei viventi» (Is 53, 8). Chi dunque ci darà ora la parola di vita e di salvezza?

Affrettiamoci a confessare il mistero del Verbo che disarmerà i suoi persecutori e Lo restituirà ad anime pronte a riceverLo. La Parola di Dio non è vincolata dalla morte. Come una parola dalle labbra dell’uomo non muore del tutto nel momento in cui il suo suono cessa, ma piuttosto raccoglie nuova forza e, passando attraverso i sensi, penetra nelle menti e nei cuori degli ascoltatori; così anche il Verbo Ipostatico di Dio, il Figlio di Dio, nella Sua incarnazione salvifica, mentre muore nella carne, «riempie ogni cosa» (Ef 4, 10) con il Suo Spirito e la Sua potenza. Così, quando Cristo viene meno e diviene muto sulla croce, è allora che il cielo e la terra innalzano a Lui la voce, e i morti predicano la risurrezione del Crocifisso e le pietre stesse gridano. «E il sole si oscurò e il velo del tempio si squarciò in mezzo; e la terra tremò e le rocce si spaccarono; e le tombe furono aperte e molti corpi dei santi che dormivano risorsero »(Lc 23, 45; Mt 27, 51-52).

Miei cristiani, il Verbo incarnato tace solo per parlarci con maggiore potenza ed effetto; si ritira, per «dimorare tra noi» più interiormente (Gv 1, 14); muore per concederci la sua eredità. Riuniti dalla Chiesa per tenere conversazioni con il defunto Gesù, ascoltate la rapida e potente parola dei morti (Eb 4, 32); ascoltate il testamento che vi ha lasciato: «E io preparo per voi un regno, come il Padre mio ha stabilito» (Lc 22, 29). Ma per evitare che un sogno prematuro sulla grandezza di quell’eredità distolga il nostro sguardo dal Gesù crocifisso raffiguratoci in questi giorni solenni, noi, cristiani, osserviamo con più attenzione che i suoi immediati eredi non trovarono altro tesoro dopo la Sua morte che legno della Croce su cui soffrì e morì, ed era questa stessa Croce che offrirono come modello da imitare a quanti desideravano prendere parte all’eredità del Suo regno. Cosa significa questo? Significa che come «Cristo avrebbe dovuto soffrire», per «entrare nella sua gloria» (Lc 24, 26), che Egli «ha presso Padre Suo», così deve anche il cristiano, «attraversare molte tribolazioni, per entrare nel regno di Dio» (Atti 14, 22) che Cristo gli ha lasciato in eredità; significa che come la croce di Cristo è la porta del regno di Dio per tutti, così la croce di ogni cristiano è la chiave del regno per ogni figlio del regno. Questa è dunque l’epitome della sublime predicazione della Croce (1 Cor 1, 18), così incomprensibile per la mente, così facilmente accettata dalla fede e così potente attraverso Dio. Offriamo questo come una goccia di mirra sul sepolcro della Parola vivificante.
Anche prima che il Figlio di Dio incarnato avesse preso e portato la sua croce, questa stessa croce apparteneva già all’uomo. Nella sua origine era stata formata dall’albero della conoscenza del bene e del male. Il primo uomo avrebbe voluto solo assaggiarne il frutto, ma appena lo ebbe toccato, l’intero peso dell’albero proibito, con tutti i suoi rami e le sue fronde, cadde sul collo del trasgressore della legge di Dio. Oscurità, dolore, terrore, fatica, malattia, morte, miseria, umiliazione, l’inimicizia di tutta la natura, in breve, tutti i poteri di distruzione sembravano scaturire dall’albero fatale e fargli guerra; e il figlio dell’ira sarebbe inevitabilmente precipitato per sempre nell’inferno, se la Misericordia, nella sua eterna saggezza, non gli avesse teso la mano e non lo avesse sostenuto nella caduta. Il Figlio di Dio prese su di Sé il fardello che aveva schiacciato l’umanità; Portò la sua croce e lasciò all’uomo solo di toccarla, senza dubbio non perché l’uomo potesse aiutare l’Onnipotente a sopportarne il peso, ma affinché l’uomo stesso con la ben più leggera croce che gli rimaneva potesse essere trascinato dal potere di Colui che era più grande, come una barca è spinta dal movimento di una nave. È così che la croce dell’ira si è trasformata in una croce d’amore; la croce che aveva sbarrato la via per il paradiso, diventa una scala per il cielo. La croce, germogliata dall’albero morto della conoscenza del bene e del male, lavata nel Sangue divino, si rigenera nell’albero della vita. Il Figlio di Dio prende su di sé la nostra natura e «attraverso le sofferenze rende perfetto» in sé: «poiché egli stesso ha sofferto la tentazione, può venire in aiuto di quelli che sono tentati». Va avanti con la croce e «porta i suoi seguaci alla gloria» (Eb 2, 20, 18; 4, 15).
Chi misurerà questa croce universale portata dal Capitano della nostra Salvezza? Chi ne dirà il peso? Chi conterà le varie moltitudini di croci di cui è formato, come il mare di gocce d’acqua? Non fu solo da Gerusalemme al Golgota che questa croce fu portata con l’aiuto di Simone il Cireneo; fu portato dal Getsemani a Gerusalemme e al Getsemani dalla stessa Betlemme.
Tutta la vita di Gesù fu una croce e nessuno stese la mano su questo fardello se non per renderlo più gravoso. «Ha calpestato il torchio» dell’ira di Dio « [era] solo, e del popolo non c’era nessuno con lui» (Is 63, 3).
La Divinità si unisce con l’umanità, l’eternità con il tempo, la perfezione con ciò che è limitato, l’increato con la sua stessa creatura, ciò che di per sé esiste con il nulla. Quale incommensurabile, quale incomprensibile croce ha origine da questa unione!
Il Teantropo, la cui discesa sulla terra è glorificata dai cieli, si rivela qui nell’era più indifesa dell’umanità. Nella più piccola città del più piccolo regno della terra, non c’è casa, nessuna culla per Lui e, tranne i Suoi umili genitori, nessuno tranne pochi pastori si interessa della Sua nascita.
Contano all’Eterno otto giorni di questa nuova vita, e poi Lo sottopongono alla sanguinosa legge della circoncisione.
Il Signore del tempio è «condotto al tempio per essere presentato al Signore»; e Colui che è venuto a riscattare il mondo, è riscattato «da una coppia di tortore» (Lc 2, 22, 24).
Mentre era ancora senza facoltà di parola, la spada della predicazione della croce è già affilata sulle labbra di Simeone e trafigge l’anima di sua madre (Lc 2, 34, 36).
Alcuni uomini di una strana tribù vengono a salutarlo con il titolo di Re dei Giudei; ma anche questa debole gloria eccitava contro di Lui l’inimicizia del re ebreo, lo rendeva la causa innocente dello spargimento di sangue e lo obbligava a ritirarsi dal popolo di Dio in una terra di idolatria.
La sconfinata Sapienza di Dio «aumentava in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52), man mano che aumentava di statura. Per trent’anni il Signore dei Cieli e il Re della Gloria si tiene nascosto dal cielo e dalla terra in profonda obbedienza a due mortali che ha concesso di chiamare i Suoi genitori.
E cosa non soffrì Gesù in seguito dal giorno stesso in cui entrò nel solenne ministero della salvezza dell’umanità? Il Santo di Dio che viene a santificare l’umanità, in compagnia dei peccatori, in cerca di purificazione, china il capo sotto la mano dell’uomo e riceve il battesimo; il battesimo in verità, fratelli miei, cioè l’immersione, non tanto nell’acqua, quanto nella pienezza della croce. [In russo, la parola battesimo, krestchenie, deriva dalla parola croce, krest; cosicché essere battezzato equivale ad essere “crocifisso”.]
Colui che «scruta il cuore» e prova le redini (Ger 17, 10), è egli stesso consegnato alla tentazione. Il pane del cielo è abbandonato alla fame terrena. Colui davanti al quale «ogni ginocchio deve inchinarsi, delle cose in cielo, e delle cose sulla terra e delle cose sotto la terra» (Fil 2, 10), subisce dal principe dell’inferno la pretesa di essere adorato da Lui. (Mt 4, 9).
Il Mediatore tra Dio e l’uomo si rivela agli uomini, ma o non lo riconoscono o non lo riconosceranno; La sua dottrina è considerata bestemmia (Mt 9, 3), le sue opere illegali (Gv 9,16), i suoi miracoli sono detti essere operai di Belzebù (Mt 12, 24); se fa miracoli e fa del bene di sabato, è additato a trasgressore del sabato; se converte i peccatori e riceve il penitente, viene rimproverato come “amico dei peccatori” (Mt 11, 19). Lì «si consigliano su come coinvolgerlo nei suoi discorsi» (Mt 22, 15); qui «lo conducono sulla sommità di una collina, per gettarlo a capofitto» (Lc 9, 29); in un altro luogo «prendono pietre da scagliare contro di Lui» (Gv 8, 5); da nessuna parte gli è dato «un luogo dove posare il capo» (Mt 8, 20). Risuscitò i morti e i suoi gelosi nemici si consigliarono su come ucciderlo (Gv 9, 43, 44, 46, 53). Alle porte di Gerusalemme il popolo lo saluta come un re e tutte le autorità terrene si alzano per condannarlo come un malfattore. Nella cerchia prescelta dei suoi amici scopre un traditore ingrato e il primo strumento della sua morte; i migliori di loro sono un’“offesa” per Lui, poiché proprio nel momento in cui Egli va avanti per l’opera di Dio, «non pensano secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16, 23).
Non ti riposerai, divino Portatore della Croce, neppure un momento dal giogo, che sempre più pesantemente preme sulle Tue spalle? Non ti riposerai, se non per riprendere forza per nuove fatiche, o al massimo per condiscendenza alle infermità dei tuoi discepoli? Sì, avvicinandoti al Golgota, riposerai sul monte Tabor. Sali dunque al monte della gloria; lascia che il tuo volto sia illuminato dalla luce celeste; lascia che le tue vesti diventino bianche e scintillanti; lascia che la legge e i profeti vengano a riconoscere in te il loro adempimento, che la voce del beneplacito del Padre Tuo sia udita! Ma non vedete, voi che mi ascoltate, come la Croce segue Gesù fino al monte Tabor, e come la predicazione della Croce è inseparabile dalla predicazione della glorificazione? Anche lì, in mezzo a tanta gloria, di cosa parlano Mosè ed Elia a Gesù? Parlano della sua croce e della morte: «E parlavano della sua morte» (Lc 9, 31).
Per molto tempo Gesù portò la sua croce, come se non ne sentisse il peso; ma alla fine gli fu consegnato come a «un leone, che rompe tutte le Sue ossa» (Is 38, 13). Entriamo dopo di lui con Pietro e i figli di Zebedeo nel giardino di Getsemani, e attraversiamo con occhi attenti le tenebre della sua ultima notte sulla terra. Non nasconde più la Croce che ha spezzato la sua anima: «L’anima mia», dice, «è triste fino alla morte» (Mt 36, 38). E anche il colloquio orante con il Padre consustanziale non lo libera dal peso della sua agonia, ma lo tiene sotto il suo peso: «O Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavia, non come io ma come Tu vuoi»(Mt 26, 39). Colui che «sostiene tutte le cose mediante la parola della sua potenza» (Eb 1, 3) ora ha bisogno di essere «confortato da un Angelo» (Lc 22, 43).Forse, ad alcuni di noi, l’agonia mortale di Gesù sembra essere indegna dell’Unico Santo. Sia noto a loro che questa agonia non fu il risultato dell’impazienza umana, ma della giustizia divina. Potrebbe «l’Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo» (Ap 13, 8) fuggire via dal Suo altare di sacrificio? Lui, «che il Padre ha santificato e mandato nel mondo» (Gv 10, 36), Lui, che dall’eternità aveva assunto l’incarico di mediatore tra l’uomo e Dio, poteva Egli essere scosso nella sua opera, al solo pensiero della sofferenza? Se poteva provare qualche impazienza, non era che l’impazienza di realizzare la nostra salvezza e di benedirci. «Ma ho un battesimo con cui essere battezzato», dice Lui, «e come sono oppresso finché non sia compiuto» (Lc 12,50). E quindi, se è estremamente addolorato, è a causa del nostro dolore, e non il suo; se lo vediamo «disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo di dolore e istruito nel dolore, sicuramente Egli ha sopportato le nostre pene e portato i nostri dolori» (Is 53, 3-4); il calice che Suo Padre Gli offre nel calice di tutte le iniquità da noi operate, e di tutte le pene preparate per noi, che avrebbero travolto il mondo intero, se Lui solo non l’avesse preso, tenuto e bevuto fino in fondo. Era composto, quel calice, in primo luogo, dalla disobbedienza di Adamo, e poi dalla corruzione del mondo antico (Gen 6, 22; 2 Pt 2, 5): dall’orgoglio e dall’iniquità di Babilonia, dalla durezza di cuore e dall’impertinenza dell’Egitto , dei tradimenti di Gerusalemme, «che uccise i profeti e lapidò quelli che le erano stati inviati” (Mt 23, 37), della malizia della sinagoga, della superstizione del paganesimo, della follia dei sapienti di questo mondo; e, infine, (in quanto il Redentore aveva preso su di Sé anche i peccati futuri del mondo) esso era costituito dagli scandali della stessa cristianità, dalla divisione dell’unico gregge dell’Unico Pastore, dalle audaci dottrine del falso maestri, della diminuzione della fede e dell’amore, nel regno stesso della fede e dell’amore, e dal risveglio dell’ateismo nel seno della pietà stessa. Aggiungiamo a ciò tutto quello che troviamo in noi e intorno a noi che merita l’abominio e l’ira di Dio; così come quello che ci sforziamo di nascondere alla nostra coscienza, sotto l’abile designazione di debolezza: i piaceri sconsiderati e illeciti della giovinezza; la durezza di cuore della vecchiaia; l’oblio della Provvidenza nella felicità; i mormorii nella sfortuna; la vanità nelle buone azioni; l’amore di guadagno nel nostro lavoro; la lentezza nelle riforme; le molteplici ricadute anche dopo l’esserci rialzati; l’incuria e l’indolenza, quei seguaci del lusso; l’ostinazione del nostro tempo, orgoglioso dei suoi sogni di civiltà. Tutti questi fiumi di iniquità confluirono in un unico calice di dolore e sofferenza per Gesù: tutto l’inferno fu precipitato su l’anima celeste, e c’è quindi da meravigliarsi se Egli fu «triste fino alla morte?»

Mancano le parole, fratelli miei, per seguire il Grande Sofferente dal Getsemani a Gerusalemme e da lì al Golgota; dalla sua croce interiore a quella esteriore. Ma i riti mistici celebrati oggi dalla Chiesa vi hanno già tracciato questa strada e quest’ultima Croce. È così doloroso, che il sole non poté guardarlo dall’alto, e così pesante che la terra tremò sotto di essa. Colui che è senza macchia o imperfezione, sopporta tutte le possibili sofferenze, interiori ed esteriori, le più pesanti e le più vergognose, e tutto questo sopporta anziché ricevere ricompensa per le benedizioni elargite; il Santissimo soffre a causa dai più ingiusti, il Creatore a causa delle sue stesse creature; soffre a causa di esseri indegni, ingrati, e per gli stessi autori di quella sofferenza, soffre per la gloria di Dio ed è come abbandonato da Dio: quale abisso insondabile di sofferenze! «Dio mio, Dio mio, perché hai abbandonato» (Mc 25, 34) il tuo Diletto? Sì, Signore! Per un po’ Tu Lo hai abbandonato, pur di non abbandonare noi per l’eternità, noi che ti avevamo abbandonato. Da questo giorno «Egli regna, è rivestito di maestà; il Signore è rivestito di potenza e se ne è cinto: e così ha reso saldo il mondo, affinché non sia scosso» (Sal 93, 1). Elevato da terra, sulla Croce, la diffonde per tutta la terra e «attirerà tutti gli uomini a Lui, al cielo» (Gv 12, 32).
Ma, per quanto grande e divina sia la potenza di Cristo Gesù che tutto attrae, Egli non può «attrarci, affinché noi Gli corriamo dietro» (Cantico dei Cantici 1, 4), se non impiantando la sua croce in noi e unendo la nostra croce con la Sua. «Se qualcuno», dice Lui, “vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua» (Lc 9, 23). Infatti, sebbene Egli abbia operato, con il Suo sacro Sangue e la Croce, la purificazione dal peccato e la redenzione del mondo intero dalla maledizione, e ci abbia aperto l’ingresso al Santo dei Santi, tuttavia, poiché nessuno può entrarvi se non il sacerdote e l’offerta, dobbiamo offrire noi stessi come sacrificio nelle mani di questo «Gran Sacerdote, secondo l’ordine di Melchisedec» (Sal 109, 4). E poiché la maledizione è il frutto del peccato, e la radice del peccato è piantata nel nostro libero arbitrio, allora noi dobbiamo anche abbandonare liberamente la nostra volontà all’arbitrio della Croce di Cristo in noi, in modo che possiamo appropriarci della purificazione e della redenzione, della giustizia e della benedizione di Cristo. È per questo motivo che coloro che comprendono veramente «il potere di Dio» si nascosero «nella predicazione della croce», così spesso ci insegnano con il loro esempio e la loro parola, «a essere crocifissi con Cristo, a essere crocifissi al mondo, crocifiggere la carne con gli affetti e le concupiscenze; non vivere per noi stessi e riempire ciò che è dietro l’afflizione di Cristo nella nostra carne» (Rom 6, 6; Gal 5, 24, 6, 14, Rom 14, 7; Col 1, 2).
Quanto più fermamente e pazientemente portiamo il peso della nostra croce, tanto più abbondantemente ci sono concessi i doni di Dio, ottenuti dalla Croce di Cristo: «poiché come le sofferenze di Cristo abbondano in noi», così anche la nostra consolazione «abbonda di Cristo» (2 Cor 1, 5). Il peccatore, che dopo aver portato risolutamente la sua croce, infine si crocifigge su di essa, sottomettendosi con perfetta obbedienza a tutte le esigenze di purificazione della giustizia, alla presenza del Salvatore crocifisso, presto, come il ladrone, ascolterà la Sua voce di gioia: «Oggi sarai con me in paradiso.»
Soffrire alla presenza di Cristo, e nello stesso modo in cui Egli ha sofferto, è avere un assaggio del Paradiso.

Come la Croce materiale visibile è lo stendardo reale del regno visibile di Cristo, così la nostra croce segreta è il sigillo e il segno distintivo dei veri ed eletti servitori dell’invisibile Regno di Dio. È un pegno prezioso dell’amore di Dio: è la verga del Padre, non tanto per castigare e spezzare lo spirito, quanto per «ristabilirlo» e «confortarlo» (Sal 2, 9, 23, 3-4). È il fuoco purificatore della fede, il compagno della speranza, il mortificatore della sensualità, il vincitore della passione, l’incitatore alla preghiera, il protettore della castità, il genitore dell’umiltà, il maestro della saggezza, il custode dei figli del Regno. Dove furono allevati tutti i grandi angeli, le guide e i guardiani della Chiesa, i Giuseppe, i Mosè, i Daniele, i Paolo? Alla scuola della Croce. Dov’era che la Chiesa crebbe, fiorì e portò più beatamente frutti alla santità? Era il tempo in cui il campo del Signore veniva arato incessantemente dalla Croce e irrigato con il sangue dei martiri. Chi, è stato chiesto a San Giovanni, nella sua visione, chi sono coloro che circondano il glorioso trono dell’Agnello? «Cosa sono costoro, vestiti di vesti bianche? e da dove vengono?» e quando non poteva riconoscerli nella loro gloria divina, allora gli fu detto che erano loro che erano stati suggellati con la Croce: «questi sono quelli che escono da grandi tribolazioni” (Ap 7, 13-14).
Chi sono allora coloro che renderebbero «vana la croce di Cristo» (1 Cor 1:17), e immaginano di poter «conoscere Lui e il potere della Sua risurrezione», senza «la comunione delle Sue sofferenze» (Fil 3, 10)? Se solo Cristo è la vita ed è la via (Gv 14, 16) per la vita, come possono raggiungere la vita di Cristo senza camminare nella sua via? Possono tali membra senza forza essere unite a quel corpo, il cui Capo, incoronato di spine, «si unisce e si compatta perfettamente insieme per sé stesso» (Ef 4, 15-16)?

Possono le membra essere tranquille e indifferenti quando il Capo viene colpito, colpito e afflitto? Possono dimenticare sé stesse in feste rumorose, quando il loro capo è avvolto da dolori mortali? Possono bere la coppa piena dei piaceri mondani mentre il loro capo ha sete e beve aceto? Possono essere orgogliose quando il loro capo è abbassato? Non soffriranno nemmeno per un momento a causa dei loro peccati e trasgressioni, quando il loro Capo soffre e muore per i peccati degli altri? Possono dare sé stesse al mondo e alla carne quando il loro capo dà il suo spirito a Dio?

O uomo, tu che sei attratto in cielo dalla grazia del tuo Signore, eppure sguazzi nella carne nel mondo! Guarda quanto somigli all’uomo, che affonda nelle acque e tuttavia lotta per non annegare; egli ripete incessantemente la figura della croce negli sforzi delle sue membra, superando così le onde ostili. Guarda l’uccello che vorrebbe lasciare la terra e librarsi in alto: allarga le ali a forma di croce e vola via. Cerca dunque anche tu nella croce i mezzi per elevarti al di sopra del mondo e ascendere a Dio. «La predicazione della croce è per coloro che sono salvati la potenza di Dio». Amen.


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